Qual è il regime fiscale da applicare alle retribuzioni degli autisti?
Diciamololo diversamente: la parte in più che l’autista percepisce per le trasferte è da assimilare a un normale reddito oppure è soltanto un’indennità e quindi sfugge alla tassazione?
La risposta a questo punto definitiva fornita dalla sentenza n. 27093 della Corte di Cassazione riunita a Sezioni Unite è molto precisa: il regime fiscale degli autisti non è quello dei trasfertisti, ma quello più vantaggioso delle indennità di trasferta.
Sembra una questione di poco conto, ma in realtà la differenza tra i due casi è abbastanza netta e perfettamente distinta dal Legislatore esattamente un anno fa con la legge n. 225 del 1° dicembre 2016, che convertiva con modificazioni il D.L. n. 193/2016 (“decreto fiscale”), che conteneva proprio
un’interpretazione autentica del concetto di trasferta, adesso ribadito dalla Cassazione.
Secondo questa norma il lavoratore trasfertista è tale se si verificano tre condizioni:
a) dispone di un contratto in cui non viene indicata la sede di lavoro;
b) svolge un’attività lavorativa che richiede continua mobilità;
c) percepisce una indennità o maggiorazione di retribuzione in misura fissa, attribuiti senza distinguere se il dipendente si è effettivamente recato in trasferta e dove la stessa si è svolta.
Di conseguenza, quando si riscontrano tutti insieme questi criteri il lavoratore sarà inquadrabile come trasfertista e dovrà essere assoggettato al regime fiscale previsto dal comma 6 dell’articolo 51 T.U.I.R., vale a dire una tassazione del 50% delle somme riconosciute per la trasferta. In caso contrario, vale a dire se anche soltanto una di queste condizioni non è presente, allora si applica il regime fiscale previsto per le indennità di trasferta dal comma 5 del medesimo articolo 51 e cioè la tassazione soltanto delle somme che vanno oltre i 46,48 euro al giorno (77,47 in caso di trasferte all’estero) e comunque soltanto per la parte che va oltre tali valori.
Ora, siccome il terzo punto c) non è mai applicato a un autista di camion, in quanto questi ottiene un’indennità soltanto se svolge effettivamente la trasferta e peraltro in misura variabile in relazione al numero di ore passate in trasferta, tale autista non può essere definito come
“trasfertista”. E di conseguenza la somma percepita per la trasferta si configura come un’indennità di disagio concessa esclusivamente per precisi periodi e in funzione delle ore trascorse al di fuori del territorio in cui si trova la sede di lavoro del dipendente.
Ed ecco perché le indennità di trasferta corrisposte agli autisti che occasionalmente prestino servizi per cui è necessario assentarsi dalla sede di lavoro non concorrono a formare il reddito almeno fino a una certa soglia.
La Cassazione quindi ha innanzi tutto ribadito questa differenza di retribuzione e di imposizione fiscale tra “trasfertisti abituali” e “trasfertisti occasionali”.
Inoltre, ha riconosciuto il carattere retroattivo della norma, considerandolo applicabile anche prima dell’entrata in vigore del D.L. 193/2016. Quindi, i criteri distintivi ricordati si applicano anche alle situazioni e ai giudizi pendenti prima dell’entrata in vigore della norma interpretativa.